Dove va il mondo? Focus su alcune sfide esistenziali e sul costo dell’attuale assenza europea
Sic transit gloria mundi. Così Gideon Rose introduce il numero di luglio-agosto di Foreign Affairs dedicato al declino americano (What Happened to the American Century?). Oggi il mondo, Statunitensi inclusi, deve fare i conti con il declino (relativo) della super potenza che ha plasmato il sistema occidentale dopo la Seconda guerra mondiale e che ha creduto di poter dominare il XXI secolo, forte della propria supremazia militare, nel segno dell’affermazione sempre più condivisa del modello politico occidentale liberal- democratico e del continuo progredire su scala globale dell’apertura dei mercati e dei principali settori
dell’economia. Il vecchio ordine e la leadership che lo governava oggi sono rimessi in discussione, e il mondo vive una transizione complessa, mentre un nuovo modello e un nuovo ordine ancora non riescono a delinearsi. Le sfide sono molteplici; ci limitiamo a richiamarne alcune, quelle che sembrano più determinanti, innanzitutto per mettere a fuoco il ruolo potenziale che potrebbe giocare un’Europa federale, e le responsabilità che si assumono gli Europei qualora non si impegnino a realizzarla.
1. La sfida di rilanciare la politica democratica
Nessuno può mettere in discussione i risultati straordinari ottenuti in questi decenni trascorsi nel segno della globalizzazione americana. I dati sulla riduzione della povertà (nell’ordine dei miliardi di persone affrancate dal problema della sopravvivenza) e sulla crescita economica dei paesi una volta chiamati “in via di sviluppo” sono impressionanti. Il mondo è profondamente cambiato, e in meglio. Obama ricordava spesso che l’umanità sta attraversando il periodo migliore che abbia mai sperimentato, e che nel mondo non ci sono mai state, per un individuo, così tante possibilità di nascere in condizioni di relativa libertà e benessere come oggi. Tuttavia, la crisi che attraversa le nostre società conferma che, rispetto agli effetti prodotti da questi processi, in Occidente sono stati compiuti errori profondi e innegabili, ormai universalmente riconosciuti. Le politiche “iperglobaliste” imposte al mondo dagli USA hanno perseguito un sistema volto a far sì che qualunque Paese si ritrovasse a mettere al servizio dell’economia globale la propria, capovolgendo la logica stessa della politica, come ha più volte ricordato Dani Rodrik, anche nel suo recente Globalization’s Wrong Turn – And How It Hurt America; è così che “l’incremento degli scambi con la Cina e altri paesi a basso reddito hanno accelerato il declino del lavoro manifatturiero nel mondo sviluppato, depauperando molte comunità” e che “la finanziarizzazione dell’economia globale ha prodotto la peggior crisi finanziaria dopo la Grande Depressione”.
Come mai allora è mancata la risposta dei governi di fronte agli evidenti danni sociali che si stavano producendo e al crescere delle ineguaglianze e del disagio? Come mai la politica democratica è rimasta prigioniera di un’ideologia che la svuotava delle sue prerogative e la confinava a ruolo di comprimaria dei mercati, come se le forze del mercato fossero inarrestabili e dettassero le condizioni? Bastano questi interrogativi per capire che le radici più profonde della crisi che stiamo attraversando sono da ricercare prima di tutto nella debolezza in cui è precipitata la politica democratica. E’ una crisi che colpisce innanzitutto gli stessi Stati Uniti e che si propaga in Europa; una crisi che addirittura determina un arretramento dei regimi democratici, riportando in auge modelli autocratici che, laddove erano stati sconfitti dalla storia e dal sentimento civile delle popolazioni, si pensava non avrebbero più avuto spazio.
E’ facile capire come questa crisi possa colpire gli USA nel momento di difficoltà che attraversano, in cui si trovano a gestire, dopo l’illusione egemonica, il declino relativo della propria potenza, in particolare a fronte dell’emergere prepotente della Cina, e a dover ripensare in questi nuovi termini il proprio ruolo e un nuovo modello di governo del mondo. Nascono così la tentazione di rifugiarsi in un nazionalismo esasperato, che cerca di sfruttare il vantaggio relativo che l’America mantiene - in termini militari, scientifici e tecnologici, industriali, monetari – e di ricreare gli scenari di una nuova Guerra fredda sino-americana; l’abbandono di un multilateralismo in cui l’influenza statunitense è da tempo in crisi e diventata troppo difficile da esercitare; l’ideologia del suprematismo bianco, che offre ad una parte di Americani un nuovo senso di appartenenza e una identità forte e che si afferma con sempre maggior influenza negli USA; essa ormai si pone come il nuovo paradigma culturale e ideologico da portare nel mondo, creando in questo un asse persino con i propri nemici geostrategici come la Russia, accomunati in questo specifico disegno di cercare di sostituire con un nuovo ordine autocratico il vecchio ordine fondato su un modello di tipo democratico. Per questo non sono da sottovalutare l’internazionale suprematista che Steve Bannon si prodiga a costruire, né la sua influenza sui movimenti nazionalisti e populisti in Europa, o le commistioni di questi ultimi con la Russia.
La colpa di tutto ciò è però solo in parte della politica americana. Come già scriveva Francesco Rossolillo in un editoriale del 1999 de Il Federalista (“Come l’Europa può aiutare gli Stati Uniti”), è stato il peso insostenibile dell’esercizio di una leadership troppo onerosa per le sue forze e troppo protratta nel tempo, a logorare inevitabilmente le risorse materiali e morali degli Stati Uniti. L’indebolimento della democrazia americana deriva in larga parte dal non aver avuto alternative rispetto alla necessità di far fronte al compito impossibile di guardiani dell’ordine mondiale; un ruolo che non hanno mai potuto svolgere in modo efficace, perché non avevano le risorse per perseguire un disegno generale capace di indurre i cittadini americani e i governi dei paesi alleati a sentirsi coinvolti in un grande compito storico comune.
Come federalisti, non possiamo allora non sottolineare che è innanzitutto il mancato completamento in senso federale del processo di unificazione europea che ha determinato questo destino americano e, con esso, la crisi della politica democratica. E’ mancata un’Europa forte e positiva, capace di propugnare un nuovo
equilibrio mondiale; e non si è realizzato quel nuovo modello di democrazia sovranazionale che l’Europa federale avrebbe dovuto affermare, che sarebbe dovuto essere il riferimento politico indispensabile per un diverso governo della globalizzazione. Basti pensare a cosa rappresenterebbe oggi, come modello per i progetti di integrazione regionale, anche solo l’esempio della CECA e del tentativo che ha prodotto di costruire una sovranità sovranazionale comune, rispetto all’esempio rappresentato dal Mercato unico che, invece, nonostante alcuni successi innegabili, scommette sul mantenimento delle sovranità nazionali. Se ancora non fosse chiaro che cosa ha significato, con la caduta della CED, la fine dell’esperimento di unificazione tentato dai Padri fondatori, e se ancora ci fossero dubbi su cosa manca al modello comunitario che ne è seguito e al sistema che l’Europa ha costruito proprio a partire dalla fine della Guerra fredda, sarebbe sufficiente osservare i danni prodotti dall’assenza di un’Europa politica nei decenni, a causa della volontà degli Stati di preservare la propria sovranità – e i danni che sta producendo in questo momento – per capire il valore della rivoluzione europea mancata e il valore della battaglia federalista oggi. E’ un fatto che questa Europa non riesce ad esercitare un ruolo responsabile nel mondo, né a contribuire alla stabilità regionale, e non è in grado di sopravvivere senza un ordine internazionale garantito dalle potenze politiche extra- europee.
2. La sfida di un nuovo ordine mondiale
Il bilancio della politica internazionale a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino ci conferma che è stata in gran parte l’assenza di un centro europeo di diffusione della responsabilità, per riprendere nuovamente le parole dell’editoriale di Francesco Rossolillo, ad impedire la possibilità della diffusione del potere e la creazione di un ordine multipolare, più stabile e pacifico fondato sulla regionalizzazione dell’influenza. La storia ci consegna fatti innegabili sotto questo profilo, un elenco sterminato di crisi e mancate soluzioni a causa dell’assenza europea nel ridisegnare gli equilibri mondiali all’indomani della Guerra fredda: dall’evoluzione in senso autocratico e anti-occidentale della Russia (per nulla scontata inizialmente), alla mancata stabilizzazione dei Paesi del Mediterraneo, al via libera agli errori drammatici degli USA in Medio Oriente, al destino dell’Africa, al modo stesso in cui sono stati gestiti la globalizzazione e l’emergere della Cina, alla crisi delle istituzioni multilaterali, ai modi in cui si sono sviluppati i tentativi di affermare un nuovo multipolarismo in chiave anti-occidentale e i modi i cui questi tentativi sono falliti; per non citarne che alcuni, insieme ai tanti casi specifici, come la fine della ex-Jugoslavia o il destino dell’Ucraina e quello della Turchia. Tutto ciò ha preparato il difficilissimo contesto mondiale in cui ci troviamo oggi: le tensioni, le guerre e l’instabilità crescenti, con il relativo esodo di decine e decine di milioni di profughi e migranti in fuga da violenze e miseria; i problemi della sicurezza, tra cyberguerre e ripresa della corsa agli armamenti, che rischiano di coinvolgere direttamente anche l’Europa; la guerra dei dazi, quella valutaria che si profila all’orizzonte, le schermaglie e i piani strategici per allargare la propria orbita di influenza e il controllo sulle materie prime da parte innanzitutto di Cina e Stati Uniti, ma anche della Russia o dell’India; piuttosto che il caos che torna in America Latina, dal Venezuela, all’Argentina, alla vittoria di un Bolsonaro in Brasile.
Non è questo documento che può offrire un’analisi dettagliata dei problemi della politica internazionale, né fornire un elenco completo dei problemi sul tappeto; qui ci interessa sottolineare come questa situazione si riflette sull’Europa, e come la minaccia. La sua debolezza politica e il suo tasso di ricchezza e sviluppo la rendono appetibile per la Cina, nel quadro del suo progetto egemonico eurasiatico; così, attraverso la sua Belt and Road Initiative, la Cina coglie le opportunità del divide et impera, per penetrare nel nostro continente e ottenere il massimo dei vantaggi oggi, preparandosi in vista di quelli futuri. Lo stesso vale per la battaglia ingaggiata da Putin contro il sistema liberal-democratico (ormai “obsoleto” nel XXI secolo, che sarà il secolo del nazionalismo e del ritorno ai valori “tradizionali”, come ha dichiarato al Financial Times) attraverso il sostegno in denaro e l’appoggio propagandistico dati alle forze della disgregazione in Europa; le quali forze godono al tempo stesso anche dell’appoggio di Trump, che proclama di voler “disarticolare” l’Unione europea, che ai suoi occhi è un mercato da piegare ai propri voleri e un insieme di Paesi che deve pagare i dovuti tributi per vedersi (forse) garantita la propria sicurezza. Ricordiamo ancora l’Iran, la folle politica di Trump nella regione del Medio Oriente, così vitale per l’Europa, che assiste impotente.
In questo nuovo contesto è tempo che l’Europa dia seguito alla volontà di “prendere in mano il proprio destino” più volte espresso e si avvii verso una politica estera e di sicurezza europee, che prendano il posto di quelle nazionali. Non sarà un processo rapido: in queste materie si tratterà per gli Stati, nel costruire una sovranità europea, di rinunciare a gran parte della propria; e se le prove di cooperazione in atto aiutano a costruire alcune basi materiali e alcune convergenze importanti, che rappresentano sicuramente passaggi necessari, è chiaro che sono ancora lontane dal porsi l’obiettivo di rendere l’Europa una presenza mondiale autonoma e responsabile.