6. La sfida culturale
Quanto si è cercato di richiamare sinora – con tutti i limiti di un documento di questa natura e sicuramente con molte lacune – ci porta a prendere in considerazione un’ulteriore straordinaria sfida che la politica del nostro tempo deve affrontare, e che forse è la più profonda rispetto ai cambiamenti in atto. E’ la sfida culturale, la capacità di costruire paradigmi per rispondere alla nuova domanda di riconoscimento che sale dalle comunità di tutto il pianeta, trovando il modo di governare l’interdipendenza senza ignorare la profonda esigenza di definire una propria identità riconosciuta e rispettata che i gruppi umani, a diversi livelli e in diversi contesti, stanno esprimendo in tutto il mondo. Insieme, vi è la necessità di una cultura politica capace di ripensare il ruolo dello Stato nell’era tecnologica e globale, per rimettere “il capitalismo” al servizio della società, senza negare profitto e libero mercato, ma riportando al centro il bene pubblico e ponendo fine alle storture che stanno minando in tanti cittadini la fiducia nel progresso e nel ruolo della politica nelle nostre società; e vi è l’urgenza di fissare i parametri lungo i quali incanalare lo sviluppo tecnologico, per impedire che prenda indirizzi contrari ai valori della nostra civiltà, magari diventando strumento di nuove sopraffazioni. Il dibattito sul problema dell’identità individuale e collettiva, e sul ruolo che esso gioca nei processi politici, sta avendo recentemente uno sviluppo molto ampio, sia nel mondo anglosassone che in Europa. Offre elementi di riflessione e spunti che già permettono di individuare alcuni dei nodi che dobbiamo sciogliere, e forse anche di intravedere i tratti del nuovo pensiero, del nuovo umanesimo, che dobbiamo saper sviluppare per costruire un indispensabile orizzonte morale stabile e condiviso. Le società di oggi devono infatti riuscire a sostituire la comunanza sviluppata e garantita fino al recente passato dalla religione con una nuova visione culturale che permetta di coniugare l’autonomia degli individui con quella condivisione di valori e cultura che il buon funzionamento di una società richiede e di cui gli stessi individui hanno bisogno per definire la propria identità. Senza questa base comune si crea quella cacofonia di sistemi di valori in competizione cui oggi assistiamo e che, nelle parole di Francis Fukuyama, spinge molti individui disorientati a ricercare “un’identità comune che torni a legare l’individuo ad un gruppo sociale e ristabilisca un chiaro orizzonte morale. Questo dato psicologico pone le basi del nazionalismo” perché per molti individui “il proprio autentico io interiore è in realtà costituito dalle relazioni che hanno con gli altri, e dalle norme e aspettative che dagli altri provengono”; si tratta quindi di un’identità che resta legata alla dimensione collettiva, e le due identità collettive più forti oggi sono ancora quelle basate sul nazionalismo e sulla religione, spesso due facce della stessa medaglia.
Il federalismo europeo, soprattutto nelle riflessioni di Mario Albertini e di Francesco Rossolillo si è posto sin dagli anni Settanta questo tipo di problematiche, legando il progetto di un’Europa federale anche alla necessità di rispondere alle esigenze di una nuova società che doveva imparare a coniugare il rispetto per la libertà degli individui, diventato un principio inderogabile, con il mantenimento di una identità collettiva positiva. Il federalismo individua nel comunitarismo, che si accompagna strutturalmente nel progetto del federalismo europeo alla dimensione sovranazionale, la possibilità di creare una nuova forma di identità forte, perché affonda le radici nella vita quotidiana e nella storia della propria comunità, ma al tempo stesso è libera e scevra da quelle chiusure che portano con sé inevitabili degenerazioni. Non è solo la partecipazione diretta alla vita anche dei livelli istituzionali superiori a connotare con il segno dell’apertura questo tipo di identità, che nella dimensione politica si caratterizza come multilivello; lo è anche, e forse persino in misura maggiore, la garanzia della possibilità dell’autogoverno che ogni comunità vede riconosciuta istituzionalmente in un sistema fondato su una molteplicità di livelli di governo indipendenti e coordinati. Il sistema federale garantisce così istituzionalmente la dignità e il riconoscimento di tutte le realtà comunitarie, e le cementa, abolendo una delle principali cause della ossessione identitaria che oggi dilaga a causa della difficoltà di coniugare condivisione e pluralismo, e che arriva fino a rimettere in discussione persino il principio della libertà e della possibilità di autodeterminazione di ciascun individuo. Questa garanzia si realizza rendendo centrale la vita comunitaria, ma facendola evolvere al tempo stesso come parte integrante di una realtà universale. Ciò si realizza anche separando il concetto di autodeterminazione applicato alle comunità – o alle nazionalità spontanee – dalla pretesa della sovranità esclusiva e dall’apparato ideologico che ancora oggi vi si accompagna, e trasformandolo in diritto all’autogoverno. La differenza radicale è che la pretesa della sovranità esclusiva non corrisponde mai alla possibilità dell’esercizio effettivo di una volontà politica autonoma incondizionata in tutte le materie; l’autogoverno in un sistema multilivello invece sì. Infatti, laddove si è in presenza di materie che hanno una dimensione che supera i confini e che toccano gli interessi di più comunità, in un sistema di sovranità esclusive il governo di tali materie si risolve con l’imposizione del proprio volere da parte del più forte; in un sistema federale multilivello, invece, la questione si gestisce attraverso il libero esercizio democratico. Libertà, democrazia, quadro comune di valori incarnato nella Costituzione, riconoscimento collettivo pertanto si armonizzano, senza più dare adito a contraddizioni laceranti.
Tutto questo si accompagna al fatto che in un’Europa federale potrebbero trovare pieno sviluppo la cultura e la tradizione politica europee in cui è centrale il concetto dello Stato sociale, e con esso il ruolo delle istituzioni statali per regolamentare ai fini del bene pubblico il sistema economico e gli sviluppi della scienza e della tecnologia, e il loro sfruttamento in termini economici e commerciali. Un’Europa federale creerebbe pertanto un sistema capace di rispondere con le buone istituzioni e la buona politica alle sfide che globalizzazione e rivoluzione tecnologica stanno ponendo, e rispetto alle quali sinora la politica democratica è stata così inadeguata; questo permetterebbe anche di rinsaldare il patto sociale tra lo Stato (un nuovo Stato, sovranazionale) e i suoi cittadini, oggi così fragile. La forza del suo modello e il suo peso politico potrebbe poi anche imporre standard per condizionare in questo senso lo sviluppo globale, indirizzando in senso virtuoso la politica mondiale.