La riforma del sistema di voto nel Consiglio e nel Consiglio europeo
La necessità di superare il potere di veto da parte di singoli Stati membri estendendo il voto a maggioranza a tutti i settori di competenza dell’Unione europea è sicuramente una questione centrale nel dibattito sul futuro del processo di integrazione europea. Secondo alcuni, tuttavia, l’abbandono dell’unanimità nei settori nei quali essa è tuttora applicata e la sua sostituzione con decisioni a maggioranza qualificata rappresenterebbero di per sé una riforma in grado di trasformare l’Unione europea in una Federazione, consentendole di emanciparsi dal controllo che gli Stati membri tuttora esercitano sul suo funzionamento. In questa nota si vuole invece spiegare perché la sola riforma del sistema di voto all’interno degli organi che rappresentano direttamente gli Stati non è sufficiente alla creazione di una Unione federale, e analizzare a quali passi deve accompagnarsi.
L’unanimità come metodo di decisione nei settori che toccano il cuore della sovranità statale
L’unanimità costituisce ancor oggi il metodo di votazione utilizzato in alcuni settori cruciali per il funzionamento dell’Unione. Se è vero, infatti, che dalla creazione della Comunità Economica Europea ad oggi le ipotesi di decisione all’unanimità nel Consiglio sono notevolmente diminuite, soppiantate da decisioni a maggioranza qualificata, non va dimenticato che un consenso unanime degli Stati in seno al Consiglio (o al Consiglio europeo) è sempre richiesto nei due settori che costituiscono il nocciolo duro della sovranità: quello della fiscalità (l’ammontare del bilancio dell’Unione e la natura ed entità delle risorse che lo finanziano sono decisi dal Consiglio all’unanimità e tale decisione deve poi essere ratificata da tutti gli Stati membri; come pure l’unanimità è richiesta per l’approvazione del Quadro Finanziario Pluriennale) e quello della politica estera e di difesa (nel quale ogni decisione è presa dal Consiglio o dal Consiglio europeo con il consenso unanime di tutti gli Stati). La necessità di un accordo unanime in seno agli organi europei che rappresentano i governi relativamente ai due settori considerati risulta poi rafforzata da alcune altre disposizioni che rendono evidente come fosse ferma intenzione degli Stati mantenere nelle loro mani il controllo delle competenze che definiscono la sovranità statale.
Innanzitutto, in entrambi i casi non solo è richiesta una decisione unanime del Consiglio, bensì il Parlamento europeo è quasi totalmente escluso dalla presa di decisione. Nel caso della decisione sulle risorse proprie, infatti, esso viene solo consultato, e lo stesso vale nel settore della politica estera e di sicurezza comune. In tale ultimo settore, peraltro, l’art. 31 TUE prevede espressamente che non si possano adottare atti legislativi, escludendo in questo modo che si possa prevedere l’adozione di decisioni con una procedura (quella legislativa ordinaria) che ponga su un piede di parità Parlamento europeo e Consiglio.
Inoltre, se è vero che i trattati prevedono – sia in alcune disposizioni specifiche, sia in generale nell’art. 48 TUE – le cosiddette clausole passerella, e cioè la possibilità che il Consiglio europeo (o nelle ipotesi specifiche il Consiglio) consenta, all’unanimità, che in un determinato settore il Consiglio non decida più all’unanimità, bensì a maggioranza qualificata (o si passi da una procedura legislativa speciale a una procedura legislativa ordinaria), non va dimenticato che il trattato vieta espressamente che tali passerelle si applichino nel caso di decisioni “che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore della difesa” o alle ipotesi di cui agli artt. 311, commi 3 e 4, e 312, comma 1, par. 2, TFUE (decisione sulle risorse proprie e approvazione del Quadro Finanziario Pluriennale).
Al di là del fatto che tali passerelle, anche nei settori nei quali sarebbero possibili, non sono mai state applicate, l’espressa previsione dell’impossibilità di farne uso nei due settori che costituiscono il nucleo della sovranità statale non è casuale, bensì risponde appieno alla logica del metodo comunitario e alle caratteristiche di fondo del processo di integrazione così come concepito fin dalla creazione della CEE.
Il successo del metodo comunitario nella creazione del Mercato unico e i suoi limiti
In effetti, fin dalla creazione della Comunità Economica Europea, il processo di integrazione si è fondato sull’idea di creare forme di cooperazione sempre più stretta tra Stati sovrani e di esercizio in comune di funzioni statali in alternativa al trasferimento di alcune di queste a livello europeo. Per quanto l’evoluzione del processo di integrazione abbia con ogni probabilità superato le aspettative degli stessi Padri Fondatori in termini di rafforzamento dei legami e dell’interdipendenza tra gli Stati membri, tali caratteristiche si sono mantenute inalterate nell’Unione europea, proprio perché specifiche del patto fondativo sulla base del quale il processo di integrazione si è sviluppato. La struttura dell’Unione europea è infatti acefala, nel senso che si tratta di un’organizzazione concepita espressamente come priva di un governo, cioè di un potere superiore agli Stati in grado di assumere decisioni politiche, ed è fondata esclusivamente su forme di governance, ossia forme di esercizio in comune di sovranità statali.
Si tratta di un meccanismo che ha funzionato particolarmente bene per la creazione di un mercato comune, dato il particolare tipo di intervento di natura tecnica e amministrativa necessario in questo settore. In questo campo, per quanto l’Unione europea non disponga di un apparato amministrativo proprio sul territorio degli Stati membri, e dunque in ultima analisi l’esecuzione delle disposizioni dell’Unione dipenda dall’attività delle amministrazioni degli Stati membri, il metodo comunitario ha esplicato tutte le proprie potenzialità: un Parlamento europeo co-legislatore insieme al Consiglio, e dunque limitazione delle ipotesi di decisione all’unanimità, atti - quali i regolamenti - direttamente applicabili negli ordinamenti degli Stati membri, un controllo giurisdizionale pieno da parte della Corte di giustizia. Si tratta di settori, infatti, nei quali, la sovranità statale subisce delle compressioni, ma non è posta in pericolo, e dunque gli Stati hanno accettato che il diritto dell’Unione europea, attraverso i propri strumenti di carattere normativo, si imponesse agli Stati membri, anche senza il loro consenso unanime.
Un discorso totalmente differente, come accennato sopra, va applicato invece ai settori che toccano il cuore della sovranità statale e che implicano decisioni di carattere politico: in particolare quello della fiscalità (finanziamento dell’Unione) e quello della politica estera e di difesa. In detti settori, infatti, il potere decisionale è stato mantenuto nelle mani del Consiglio o del Consiglio europeo, con decisione all’unanimità, e si è esclusa dunque la possibilità che il Parlamento europeo esercitasse la sua funzione di co-legislatore e che in tali materie l’Unione potesse legiferare mediante atti direttamente applicabili nel territorio degli Stati membri. Si tratta di una soluzione perfettamente coerente con le premesse del processo di integrazione: in mancanza di un potere esecutivo legittimato democraticamente, le decisioni sono prese in comune dagli esecutivi nazionali che, pur riconoscendo la necessità di cooperare per affrontare sfide di dimensione continentale, non accettano di dar vita a una sovranità europea a loro superiore.
In ultima analisi, come è stato notato, il metodo comunitario facilita la cooperazione tra Stati, ma non comporta un trasferimento di certi poteri a un livello di governo superiore indipendente dagli Stati stessi. Se questo è il modello sul quale i Trattati istitutivi si sono fondati, ne consegue che mantenendosi all’interno dei meccanismi previsti dagli stessi trattati è possibile tentare di migliorare la cooperazione tra Stati, ma non superarla a favore di un modello – quello fondato su una reale integrazione, il modello federale – che poggia su presupposti completamente diversi.
L’esempio della fiscalità
Per tornare alla contrapposizione maggioranza/unanimità, e prendendo in considerazione uno dei settori cardine della sovranità statale, quello della fiscalità, anche ipotizzando (ipotesi vietata espressamente dai Trattati) che nel determinare le risorse a disposizione dell’Unione e il loro ammontare il Consiglio possa decidere a maggioranza qualificata anziché all’unanimità, non usciremmo comunque dalla logica intergovernativa nella quale si muovono in questa materia i Trattati. In primo luogo perché l’art. 311 TFUE stabilisce che tale decisione entri in vigore solo previa approvazione da parte di tutti gli Stati membri secondo le loro rispettive norme costituzionali. In secondo luogo perché l’organo rappresentativo dei cittadini, il Parlamento europeo, manterrebbe un ruolo irrilevante. E in terzo luogo perché la decisione sulle risorse dell’Unione non si rivolge ai cittadini, ma agli Stati membri, dal momento che la potestà fiscale rimane nelle loro mani. Gli Stati membri manterrebbero quindi il potere di decidere e di condizionare la possibilità che l’Unione si finanzi e dunque possa funzionare.
La necessità di passare da un modello fondato sulla cooperazione a un modello fondato sulla creazione di un potere sovranazionale
Che in un contesto quale quello definito dai Trattati attuali il passaggio dall’unanimità alla maggioranza non sia la soluzione emerge chiaramente anche dall’esperienza degli Stati Uniti d’America. L’articolo IX degli Articles of Confederation stabiliva in effetti – contrariamente a quanto fanno i trattati istitutivi dell’Unione europea – che anche in materia di finanziamento della Confederazione e di politica estera e di difesa il Congresso (composto dai rappresentanti degli Stati membri) decidesse a maggioranza[1]. Come nota Hamilton nel Federalist n. 15, tuttavia, il fatto che la decisione non fosse presa all’unanimità non aveva alcuna influenza, dato che le decisioni del Congresso si rivolgevano agli Stati, che dovevano fornire il denaro per finanziare la Confederazione e gli uomini per formare il suo esercito, e che potevano dunque rifiutarsi di darvi esecuzione[2].
[1] “The united states in congress assembled shall never engage in a war, nor grant letters of marque and reprisal in time of peace, nor enter into any treaties or alliances, nor coin money, nor regulate the value thereof, nor ascertain the sums and expences necessary for the defence and welfare of the united states, or any of them, nor emit bills, nor borrow money on the credit of the united states, nor appropriate money, nor agree upon the number of vessels of war, to be built or purchased, or the number of land or sea forces to be raised, nor appoint a commander-in-chief of the army or navy, unless nine states assent to the same; nor shall a question on any other point, except for adjourning from day to day be determined, unless by the votes of a majority of the united states in congress assembled”. [corsivo mio].
[2] “The great and radical vice in the construction of the existing Confederation is in the principle of legislation for states or governments, in their corporate or collective capacities, and as contradistinguished from the individuals of which they consist. Though this principle does not run through all the powers delegated to the Union, yet it pervades and governs those on which the efficacy of the rest depends. Except as to the rule of appointment, the United States has an indefinite discretion to make requisitions for men and money; but they have no authority to raise either, by regulations extending to the individual citizens of America. The consequence of this is, that though in theory their resolutions concerning those objects are laws, constitutionally binding on the members of the Union, yet in practice they are mere recommendations which the States observe or disregard at their option … Government implies the power of making laws. It is essential to the idea of a law, that it be attended with a sanction; or, in other words, a penalty or punishment for disobedience. If there be no penalty annexed to disobedience, the resolutions or commands which pretend to be laws will, in fact, amount to nothing more than advice or recommendation. This penalty, whatever it may be, can only be inflicted in two ways: by the agency of the courts and ministers of justice, or by military force; by the coercition of the magistracy, or by the coercition of arms. The first kind can evidently apply only to men; the last kind must of necessity, be employed against bodies politic, or communities, or States. It is evident that there is no process of a court by which the observance of the laws can, in the last resort, be enforced. Sentences may be denounced against them for violations of their duty; but these sentences can only be carried into execution by the sword. In an association where the general authority is confined to the collective bodies of the communities, that compose it, every breach of the laws must involve a state of war; and military execution must become the only instrument of civil obedience. Such a state of things can certainly not deserve the name of government, nor would any prudent man choose to commit his happiness to it”.