Cosa serve all’Unione europea per fermare il declino e riprendere il controllo del proprio destino
Il Rapporto Draghi su il futuro della competitività europea
Novembre 2024
Introduzione
Lo scorso 9 settembre Mario Draghi ha presentato al Parlamento europeo il rapporto sul futuro della competitività europea[1], scritto su incarico dalla presidenza della Commissione europea. Il Rapporto raccoglie e analizza una grande mole di dati, in gran parte già noti, raccolti e pubblicati da diversi centri studi e istituti pubblici, che permettono di fornire un quadro esaustivo dello stato di salute della nostra Unione europea e di accertarne in modo incontestabile le difficoltà e la perdita di competitività, in particolare se paragonata ai due grandi competitor globali, Stati Uniti e Cina. Questo Rapporto segue di poco la presentazione di quello di Enrico Letta, “Molto più di un mercato”[2], che aveva evidenziato in modo analogo i limiti del livello di integrazione raggiunto dall’UE finora e si era concentrato sulla necessità del completamento del Mercato unico.
Il Rapporto Draghi, invece, approfondisce le debolezze dell’intero sistema europeo e affronta la questione sia della necessità di una nuova strategia industriale comune, sia della necessità di adeguare la governance dell’UE. L’Europa, infatti, in questi anni ha perso molto terreno rispetto ai suoi maggiori competitors (la Cina e gli Stati Uniti), in particolare nei settori tecnologici d'avanguardia dove non è stata capace di tenere il passo con l’innovazione, con grave danno anche per la produttività, che in Europa è rimasta troppo bassa; inoltre, l’Europa soffre per la dipendenza dall’esterno in molti settori strategici (oltre che nel settore tecnologico, in particolare in quello della sicurezza, dell’approvvigionamento delle materie prime essenziali e dell’energia), per il tasso troppo basso di investimenti e per la scarsa efficienza nel reperimento delle risorse necessarie per la crescita, per la frammentazione del mercato dei capitali e del sistema bancario. Questo crescente ritardo dell’Unione europea si traduce in un trend di progressivo impoverimento delle nostre società e di ampie fasce di cittadini, nell’aumento delle diseguaglianze e nella conseguente perdita di coesione sociale, in una crescente difficoltà a mantenere i livelli di welfare che l’Europa era riuscita a raggiungere e nell’indebolimento del tessuto democratico negli Stati membri; e tutto ciò, unito alla nostra dipendenza strategica e impossibilità di garantire autonomamente la nostra sicurezza, mette a rischio anche la nostra libertà.
La ragione fondamentale del malfunzionamento del sistema – che il Rapporto Draghi dimostra fattualmente con continui esempi concreti – è legata alla frammentazione finanziaria, economica e, in ultima istanza, politica dell’Unione europea. Sempre e in ogni materia, la causa dell’impossibilità per l’Unione europea di sviluppare l’enorme potenziale di cui ancora dispone è legata al permanere di un sistema parcellizzato in quadri politici e normativi nazionali e all’incapacità degli Stati membri di compiere i passi decisivi verso un’indispensabile maggiore integrazione che dia vita ad un quadro realmente unitario.
Questa frammentazione impedisce all’UE di elaborare una strategia efficace comune. “Oggi”, si legge nel Rapporto, “le politiche industriali efficaci – come quelle degli Stati Uniti e della Cina – comprendono strategie multi-politiche, che combinano politiche fiscali per incentivare la produzione interna, politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anticoncorrenziali all’estero e politiche economiche estere per garantire le catene di approvvigionamento. L’UE non riesce a produrre una risposta di questo tipo a causa della sua complessa struttura di governance e del processo di elaborazione delle politiche che è lento e disaggregato”. Gli Stati membri, prosegue il Rapporto, agiscono ciascuno in un’ottica di protezione dei propri interessi nazionali, invece di dare priorità al reciproco coordinamento; e questa mancanza di coordinamento vale anche per gli strumenti finanziari.
Il vero problema dell’UE, pertanto, è quello di acquisire consapevolezza delle trasformazioni in atto nel mondo e della conseguente della necessità di cambiare il proprio modello economico e di governance. Il Mercato unico, in cui la politica, inclusa quella industriale, rimane nazionale non è più sufficiente, perché oggi serve agire insieme in tutta una serie di ambiti che al momento restano prerogativa degli Stati membri, laddove la visione e gli strumenti nazionali sono del tutto inadeguati e impotenti. Per questo l’UE deve farsi vera unione politica e darsi gli strumenti di governo adeguati per fronteggiare le nuove sfide. Le potenzialità per recuperare il terreno perduto ci sono, e, anzi, l’UE avrebbe i numeri per diventare un modello virtuoso per il resto del mondo; ma serve – come Draghi ha già ricordato in altre occasioni – che, con un utilizzo pragmatico del federalismo, l’UE “si faccia Stato”. Come si legge nel Rapporto, “In molti settori, l’UE può ottenere grandi risultati compiendo un gran numero di piccoli passi, ma deve farlo in modo coerente, allineando tutte le politiche all’obiettivo comune. In altre aree, tuttavia, è necessario un numero ridotto di passi più ampi, delegando all’UE compiti che possono essere svolti solo a questo livello.”
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca non può che rendere più urgente questo cambiamento in Europa. Come ha ricordato sempre Draghi a Budapest, l’8 novembre, in occasione del suo intervento alla riunione informale del Consiglio europeo, “Non possiamo più posticipare le decisioni: abbiamo aspettato per avere il consenso, e il consenso non è venuto, è arrivata la stagnazione”. Questo vuol dire, scrive sempre Draghi nel Rapporto, che se non si riesce a procedere a 27 – se non arriva il consenso, per usare le sue parole a Budapest – un gruppo di Stati volonterosi deve andare avanti, anche con accordi fuori dai Trattati, perché la priorità è superare lo stato attuale di paralisi e approfondire l’integrazione, anche costruendo un’Unione europea basata su diversi livelli di integrazione.
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Attraverso questo quaderno, il contributo che come Movimento Federalista Europeo vorremmo dare alla riflessione aperta dal Rapporto Draghi parte innanzitutto dall’esigenza di non sottovalutarne il messaggio politico. L’Europa corre molto seriamente il pericolo di essere completamente schiacciata; per questo, le indicazioni contenute nel Rapporto delineano una strategia urgente, che, proprio per la natura politica del problema che affligge l’Europa, investe tutti gli ambiti. Bisogna quindi evitare da un lato l’errore di scambiare il Rapporto per una proposta di ricette economiche, senza capire il nocciolo politico dell’analisi di Draghi; e dall’altro la tentazione di limitarsi a mettere in campo progetti singoli scoordinati tra loro, quando invece serve dotarsi di una strategia condivisa e perseguita con coerenza in tutti gli ambiti necessari: una strategia che – come indica lo stesso Draghi – deve essere a tutto tondo, a partire dalla finanza, fino alla politica industriale, alla politica estera e commerciale, alla sicurezza e alla difesa. Questo vale anche se si decidesse di partire con dei primi passaggi parziali. Infatti, se si decidesse di avviare il processo attraverso dei passi iniziali intermedi, bisognerebbe avere comunque chiara la consapevolezza del quadro politico da costruire, ossia che lo sbocco è la creazione di una comunità politica sovranazionale, dotata di una propria sovranità in ambiti concordati con gli Stati membri. Questo vale anche nel caso che un gruppo di governi decidesse di andare avanti fuori dai Trattati. L’ottica in cui muoversi deve essere comunque quella di preparare una capacità di governo unitario e coerente in tutti gli ambiti.
Oltre a doversi basare su una visione condivisa, la strategia unitaria che Draghi suggerisce pone anche la questione di riformare i Trattati: alla luce di questo Rapporto, alcuni trasferimenti di competenze e poteri sono, infatti, ineludibili, e pongono ipso facto la questione del controllo democratico, vale a dire del coinvolgimento attivo del Parlamento europeo in rappresentanza dei cittadini e di un maggiore collegamento diretto tra il voto popolare, la formazione della Commissione europea, le scelte di governo europee, oltre che un rafforzamento del ruolo della Corte di Giustizia di Lussemburgo. Aprire quindi il confronto sui cambiamenti istituzionali (legandoli anche alla necessità di dotarsi degli strumenti per attuare il nuovo corso europeo) è un passaggio necessario, e il secondo punto che vogliamo richiamare riguarda infatti le riforme essenziali della governance necessarie alla luce del Rapporto.
Le riforme essenziali della governance europea necessarie alla luce del Rapporto Draghi.
Già nel delineare le tre grandi trasformazioni che l’UE deve affrontare per recuperare il terreno perduto in questa nuova fase geopolitica, il Rapporto Draghi evidenzia una serie di ostacoli politici e giuridici che devono essere rimossi.
Il Rapporto pone innanzitutto la necessità di accelerare l'innovazione in settori tecnologici per agganciare la prossima ondata della rivoluzione che investirà l’industria. A tal fine, in estrema sintesi, bisogna riuscire a promuovere lo sviluppo di tecnologie d'avanguardia (ad esempio l'intelligenza artificiale generativa), la formazione avanzata (anche investendo in centri di ricerca e istituzioni accademiche di eccellenza), integrare meglio le nuove tecnologie digitali nel settore industriale (come quello chimico e farmaceutico). Questi obiettivi comportano la necessità, da un lato, di eliminare le barriere nazionali che ancora impediscono alle imprese (soprattutto quelle tecnologiche) di raggiungere una dimensione sufficiente per essere competitive a livello globale; dall’altro di rivedere sia il modello di capillare armonizzazione normativa, sia gli ostacoli burocratici che caratterizzano l’UE e gli Stati membri che bloccano l’innovazione e lo sviluppo industriale.
In secondo luogo, è necessario trovare un nuovo equilibrio tra il processo di decarbonizzazione in corso e il recupero di competitività dell'economia europea. Da una parte l'Unione deve mantenere le sue ambizioni sul clima, dunque tendere all'obbiettivo della neutralità climatica previsto dal Green Deal. Allo stesso tempo, bisogna sviluppare degli strumenti più efficaci per perseguire la svolta verde dell'economia e della società europea. Ciò può essere fatto innanzitutto investendo massicciamente nello sviluppo di tecnologie pulite d'avanguardia da applicarsi all'industria europea e ai trasporti (per esempio investendo nello sviluppo delle nuove generazioni di batterie elettriche), riducendo la tassazione sui prodotti energetici meno inquinanti e procedendo verso acquisti condivisi di terre rare.
La terza sfida per la competitività riguarda il perseguimento di una maggiore sicurezza dell'Europa attraverso la riduzione della sua dipendenza esterna. Lo sviluppo di una politica estera economica deve dunque portare ad una diversificazione delle fonti di approvvigionamento delle risorse energetiche e delle materie prime che sono indispensabili per la produzione industriale. La politica di investimenti deve invece permettere di aumentare la produzione domestica di prodotti tecnologici strategici, come i microchip. Inoltre, è necessario rilanciare l'industria europea della difesa, ancora frammentata e fortemente dipendente dagli Stati uniti.
Per sviluppare queste strategie a lungo termine, gli Stati membri devono condividere innanzitutto la necessità di un cambiamento radicale rispetto al sistema oggi in essere incentrato sul Mercato prettamente interno; e concordare su un adeguamento degli strumenti di cui oggi l’UE dispone nel quadro giuridico definito dai Trattati in vigore.
In altre parole, la strategia delineata da Draghi, richiede una profonda riforma dei meccanismi strutturali di funzionamento dell’Unione, così come anche indicato dal Parlamento europeo nella risoluzione del novembre 2023 volta ad avviare la procedura di revisione dei Trattati.[3] L’UE, da organizzazione essenzialmente fondata, nei settori vicini al cuore della sovranità, su una cooperazione volontaria tra Stati e priva di una ‘testa’ politica, deve trasformarsi in un ente in grado, nei settori di sua competenza, di assumere decisioni in modo democratico e indipendente dagli Stati membri, privando questi ultimi del potere di veto e divenendo capace di esprimere l’interesse generale dei cittadini europei.
Queste riforme si sostanziano nel rafforzamento delle competenze dell’Unione in alcuni settori, nella trasformazione della Commissione in un embrione di governo dell’Unione e in una riforma dei meccanismi decisionali e di finanziamento dell’Unione che privi gli Stati del diritto di veto e renda l’Unione in grado di legiferare e di decidere in merito al proprio finanziamento in modo democratico ed autonomo rispetto agli Stati membri.
a) Migliorare la capacità decisionale dell’UE
Per migliorare la capacità decisionale dell’Unione europea, occorre sia permettere alle sue istituzioni di agire senza essere costantemente bloccate dall'esercizio di veti nazionali, sia democratizzare i meccanismi decisionali, sottraendoli al monopolio esclusivo dei governi degli Stati membri. A questo scopo serve l'estensione della procedura legislativa ordinaria alla maggior parte delle decisioni, unitamente al trasferimento delle relative competenze a livello europeo; questo permetterà al Parlamento di esercitare in permanenza il ruolo di co-decisore politico dell'Unione accanto al Consiglio, il quale dovrà esprimersi a maggioranza. Si deve quindi andare a consolidare un modello sostanzialmente bicamerale, cui si devono affiancare anche un rafforzamento del legame politico tra la Commissione europea e il Parlamento e il ruolo della Corte di giustizia. Questo sistema permetterebbe di adottare in modo efficiente politiche genuinamente europee volte all'interesse generale dell'Unione e pienamente legittimate.
b) Riformare il finanziamento dell’UE
Allo stesso tempo l'Unione deve essere in grado di mobilitare maggiori risorse finanziarie per la competitività. Alcune possono essere recuperate senza modificare i Trattati in vigore. Questo vale innanzitutto per le risorse che si possono attingere attraverso il settore privato con il completamento del mercato unico dei capitali. Ciò richiede l'abolizione delle barriere che ancora limitano la piena circolazione dei capitali in Europa, l'aumento dei poteri di supervisione e regolamentazione dell'Unione, nonché l'introduzione di safe asset europei che possano funzionare da key benchmark nel mercato finanziario e permettano di mobilitare le risorse dei cittadini verso progetti europei di interesse comune. Evidentemente la creazione del mercato unico dei capitali richiede anche il rafforzamento della capacità di finanziamento del settore bancario attraverso un maggior ricorso alla cartolarizzazione, pur nel rispetto di regole prudenziali, ed il completamento dell’Unione bancaria.
Anche sotto il profilo della spesa pubblica nazionale si possono migliorare le condizioni senza mettere mano ai Trattati. In questo ambito, il Rapporto propone di affiancare al Semestre europeo, ancora troppo concentrato sulla convergenza fiscale, un nuovo "Quadro per il coordinamento della competitività" che permetta di sincronizzare a livello europeo gli sforzi degli Stati in relazione agli investimenti strategici per l'acquisto di materie prime, lo sviluppo di progetti tecnologici, la produzione energetica, il rafforzamento delle politiche di ricerca e di sviluppo.
Allo stesso tempo, il Rapporto sottolinea che è anche necessario aumentare la spesa pubblica a livello europeo con investimenti in beni pubblici comuni, ossia progetti congiunti (come lo sviluppo di reti e interconnettori, l’acquisto congiunto di materiali militari, l’innovazione tecnologica nell'ambito della difesa), finalizzati a rafforzare la competitività e la sicurezza dell’Unione. Per fare questo è indispensabile estendere le capacità di bilancio dell'Unione; e per farlo è anche necessario sottrarre il bilancio europeo ai condizionamenti politici e ai limiti in temini di dimensione imposti dalla sua totale dipendenza dalle decisioni sovrane e dai contributi degli Stati membri (fatta salva la porzione minima di entrate legate ai dazi). Diventa allora indispensabile modificare i Trattati, creando una reale autonomia dell’UE nel reperimento delle risorse necessarie a finanziare questi beni pubblici europei e coinvolgendo direttamente in questo ambito il Parlamento europeo. Infatti, la stessa possibilità di emettere nuovo debito comune – riprendendo l’esperienza del Next Generation EU – non può prescindere dalla consapevolezza che è necessario dotare anche l’UE di un potere di tassazione autonomo, in vista della necessità di ripagare gli interessi e lo stesso il debito contratto, anche solo relativamente alle tasse su grandi imprese e sulla finanza pensate in sinergia con gli obiettivi politici ed economici perseguiti dall’UE. Anche un primo passo immediato in questa direzione – ossia quello di rinviare il rimborso di NGEU, aumentando immediatamente le risorse a disposizione della Commissione per finanziare programmi incentrati sull’innovazione e sull’aumento della produttività – va comunque inquadrato in questa prospettiva.
Come si possono realizzare le riforme essenziali della governance europea
Il Rapporto Draghi, nelle parti dedicate alla riforma della governance, dice chiaramente che serve una riforma dei Trattati; ma aggiunge che in questa prima fase, dato che i governi non riescono a trovare l’accordo per aprire la procedura di revisione dei Trattati, potranno fare comunque dei passi utili se avranno la volontà politica di coordinarsi strettamente. Nel caso non trovino questa volontà a 27, un gruppo di Stati “volonterosi” dovrà procedere ad aprire la strada, andando a definire una nuova struttura dell’UE fondata su 2 diversi cerchi di integrazione. Il Trattato, ricorda il Rapporto, offre due strumenti giuridici per far avanzare un gruppo di Paesi (le clausole passerella e le cooperazioni rafforzate), esauriti i quali (nel caso in cui non si riesca ad applicarli) resta solo l’opzione di un’iniziativa di un gruppo di governi al di fuori dei Trattati, sulla base di quanto già sperimentato con il MES; in quest’ultimo caso restano completamente esclusi il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia.
Gli strumenti contenuti nei Trattati, tuttavia, sono difficilmente utilizzabili nel quadro delineato dal Rapporto, al di là della difficoltà di trovare il consenso politico per utilizzarli. Le clausole passerella previste dall’articolo 48(7) TUE non coprono infatti nessuna delle modifiche che sarebbero necessarie per garantire all’Unione europea competitività, autonomia e democrazia: da un lato, si tratta di clausole che, se prevedono effettivamente la possibilità di un passaggio da unanimità a maggioranza qualificata e da procedura legislativa speciale a procedura legislativa ordinaria, lo fanno solo per le competenze già assegnate all’UE dai Trattati; sono quindi inutilizzabili per aumentare le competenze dell’Unione e per rafforzare il meccanismo di nomina della Commissione e trasformarla in un embrione di governo. Dall’altro lato, escludono espressamente dal proprio ambito di applicazione ogni decisione avente implicazioni militari o nel settore della difesa e il meccanismo di determinazione delle risorse dell’Unione, e dunque non possono incidere sui due settori-chiave nei quali è più necessaria e urgente una riforma. Se a ciò si aggiunge che anche nel settore della politica estera la loro incidenza sarebbe praticamente nulla, appare evidente che si tratta di uno strumento non adeguato.
Per quanto riguarda invece le cooperazioni rafforzate, e cioè il meccanismo secondo il quale un gruppo di almeno nove Stati membri può avanzare più rapidamente degli altri in settori di competenza non esclusiva dell’Unione, si tratta di strumenti che non possono alterare l’equilibrio istituzionale dell’Unione e devono rispettare i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano; dunque, come dimostrato dalle loro applicazioni concrete (sempre su materie molto specifiche e di nessun impatto politico od economico), danno semplicemente vita e differenti gruppi di Stati che, in relazione a specifiche materie, instaurano tra loro una cooperazione più stretta. Non si tratta in altre parole di strumenti adatti a far compiere all’Unione un salto politico nelle materie di sua competenza, perché detto salto presuppone proprio la modifica della struttura istituzionale dell’Unione, che invece le cooperazioni strutturate non possono alterare.
Il ricorso a meccanismi di cooperazione intergovernativa al di fuori dei Trattati, invece, oggi si scontra con la debolezza dei governi anche quando retti da forze pro-europee - in particolare in Francia e Germania, tradizionalmente considerati il motore dell’Unione europea. Questo rende molto complicato per gli Stati membri trovare la volontà e la forza di prendere un’iniziativa politica coraggiosa nella direzione di una maggiore integrazione indipendentemente dal consenso di tutti e 27 gli Stati membri. Tuttavia, la pressione politica ed economica che l’Europa subirà con l’avvio della nuova Amministrazione americana metterà davvero a rischio l’esistenza dell’UE, e gli Stati membri dovranno scegliere se cercare di salvarsi da soli, dividendosi e mettendosi nelle mani della potenza esterna meglio posizionata per approfittare della situazione; oppure reagire rafforzando l’integrazione e l’unità politica dell’UE. Questa volta non sarà possibile rifugiarsi nelle micro-soluzioni tecniche o limitate a singole materie, pensate per garantire la sopravvivenza del sistema in essere – ossia il Mercato e la moneta. La sfida sarà quella di diventare capaci di reagire politicamente, e questo comporterà la necessità di quei passaggi politici che Draghi mostra chiaramente e che abbiamo spiegato nel capitolo precedente. Di fronte alla diversa reazione che i governi nazionali avranno davanti all’Amministrazione Trump, può darsi che un gruppo dei Paesi decisi a non svendere il proprio futuro trovi la forza di rompere il quadro dell’unanimità e sedersi attorno ad un tavolo per discutere seriamente di una politica estera e di difesa comuni, di una politica economica e industriale comune e dei relativi strumenti politico-istituzionali necessari a tale scopo.
Il punto è che non ci sono scappatoie per l’Unione europea, se vuole sopravvivere, se non porsi l’obiettivo di diventare una comunità politica coesa, dotata di un governo sovranazionale di tipo federale per poter agire con efficacia e in modo trasparente insieme ai cittadini. A questo proposito, vi è una quarta possibilità che gli Stati europei possono sfruttare, ed è quella di scegliere di seguire la procedura di revisione ordinaria indicata dai Trattati accogliendo la richiesta del Parlamento europeo di convocare una Convenzione per discutere le riforme necessarie. Bastano una maggioranza di 14 Stati nel Consiglio europeo per partire; e si tratta di una procedura che non è soggetta ad alcun limite di materia, o di intangibilità della struttura istituzionale esistente, e che dunque può coprire tutte le riforme necessarie. Inoltre, sotto il profilo procedurale, e al contrario di tutte le altre ipotesi, prevede il coinvolgimento diretto, a fianco dei rappresentanti dei governi e dei Parlamenti degli Stati membri, sia della Commissione, sia del Parlamento europeo, sottraendo la discussione sulle riforme dell’Unione alla dimensione puramente intergovernativa di un compromesso tra interessi degli Stati e apre la strada a una discussione pubblica. In questa ipotesi, ossia che gli Stati che vogliono rafforzare l’integrazione scelgano uno strumento unitario e previsto dai Trattati e avviino la Convenzione, questi stessi Stati dovranno porre tra i temi cruciali al centro del confronto anche quello della creazione di una struttura dell’UE fondata su diversi cerchi di integrazione, dato che sarà inevitabile riuscire ad avanzare a 27 allo stesso passo, ancor di più oggi che aumentano i governi euro-tiepidi e/o euroscettici.
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In conclusione, il Rapporto Draghi dimostra l’urgenza per gli Europei, di fronte alla trasformazione del quadro internazionale, di dotarsi degli strumenti e dei meccanismi politico-istituzionali per agire insieme con una visione e una strategia comuni. La Commissione europea e il Parlamento europeo possono fare molto per spingere gli Stati membri ad agire in questa direzione; è innegabile però che l’iniziativa spetta ai governi, ed è certo che il primo passaggio non potrà che nascere dall’iniziativa di alcuni Paesi che dovranno rompere l’unanimità e andare avanti con chi ci sta. Gli strumenti e le procedure a disposizione sono chiari; così come è chiaro che, per affrontare davvero i nodi sul tappeto, la motivazione che dovrà muovere questi Stati dovrà includere la consapevolezza della necessità di costruire una sovranità condivisa a livello europeo.
“Le decisioni non si possono più posporre”, ci ricorda Draghi: la storia sta bussando energicamente alla porta degli Europei e il tempo si sta esaurendo.
[1] M. Draghi, The future of European competitiveness, Settembre 2024, https://commission.europa.eu/topics/strengthening-european-competitiveness/eu-competitiveness-looking-ahead_en
[2] E. Letta, Much more than a Market, Aprile 2024, https://commission.europa.eu/topics/strengthening-european-competitiveness/eu-competitiveness-looking-ahead_en.
[3] Risoluzione del PE 22 Novembre 2023, https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2023-0427_IT.html
Vedi anche Quaderno Federalista Il Parlamento europeo apre la procedura di riforma dei Trattati: il significato del voto e le priorità per l'Europa