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È trascorso un anno dal giorno in cui Hamas ha scatenato la più feroce aggressione contro cittadini inermi israeliani che la storia dello Stato ebraico abbia mai conosciuto. Il numero di morti e di prigionieri, la cieca brutalità del massacro e la violenza spietata contro le vittime hanno traumatizzato uno Stato intero ed un popolo che nella sua storia ha sempre subito l’odio e la segregazione, fino allo sterminio nazista. È a causa di questo odio e di questa storia che il popolo di Israele ha infine dato vita ad uno proprio Stato etnico che è al tempo stesso oppresso – dovendo combattere ogni giorno per garantire la propria sopravvivenza – e oppressore del popolo palestinese scacciato dalle proprie case e costretto a vivere sotto occupazione nella propria terra.
Questa tragedia senza fine di due popoli in un’unica terra si intreccia con la storia delle popolazioni della regione e con i processi della politica mondiale, e diventa oggetto e parte attiva di un conflitto di potere molto più ampio, addirittura globale. In questi giorni in cui il mondo intero tiene il fiato sospeso per paura di un’escalation, dagli sbocchi imprevedibili, tra Israele ed Iran, e mentre continuano le offensive a Gaza e ora anche in Libano, è difficile dipanare la matassa. Chi invoca il diritto internazionale non come paradigma – per tracciare il confine tra l’umano e il disumano – ma come strumento risolutivo, e tenta di giudicare quanto accade sulla base del rispetto o della violazione di tale diritto, perde di vista l’assioma fondamentale su cui poggia la possibilità del diritto internazionale di funzionare come deterrente e come garanzia, se non della pace, quantomeno del tentativo di risolvere i conflitti attraverso l’uso della diplomazia: questo assioma è che ci sia una volontà e una capacità, da parte delle potenze che hanno maggior peso a livello internazionale, di creare le condizioni per la stabilità nelle diverse aree del mondo e per rafforzare gli organismi internazionali e la cooperazione. È la forza delle potenze maggiori che permette di arrivare (a volte dovendola imporre) ad una soluzione diplomatica dei conflitti. Viceversa, proprio la mancanza di un ordine internazionale con caratteristiche positive, unito all’assenza, in questa fase, delle condizioni per costruirne uno, porta inevitabilmente all’ulteriore inasprirsi della lotta per l’egemonia globale e – a cascata – nelle diverse regioni. È questo il quadro da cui partire, ed è questa la ragione profonda di quanto sta succedendo, anche in Medioriente – oltre che dell’impotenza dell’ONU.
Nel conflitto che si è scatenato in risposta al massacro del 7 ottobre è facile indentificare le vittime innocenti: sono la popolazione palestinese e quella israeliana, e più di tutti, in entrambi i casi, coloro che cercano e vogliono la pace e la convivenza in armonia. È facile anche vedere i colpevoli: da un lato gli estremisti della destra religiosa israeliana, e con loro Netanyahu, che lavorano per impedire la pace, per indebolire la democrazia in Israele e per soffocare i diritti dei palestinesi; dall’altro Hamas e tutte le organizzazioni terroristiche (Hezbollah, gli Houti, lo stesso regime iraniano) che alimentano l’odio non riconoscendo il diritto di Israele ad esistere, e soffocano le loro popolazioni tenendole in ostaggio della loro strategia di guerra e della loro ideologia autocratica che non riconosce il diritto alla libertà e all’uguaglianza. Per questo non ha senso schierarsi da una parte o dall’altra, in questo conflitto, accettando la logica della polarizzazione che da sempre caratterizza la questione israelo-palestinese. Bisognerebbe schierarsi – avere la forza e la capacità di schierarsi – con quella parte delle popolazioni nella regione, da una parte e dall’altra, che si batte per la libertà e i diritti, per la democrazia e per la pace.
Il 7 ottobre 2023 non è un giorno tanto diverso dal 24 febbraio 2022. Come l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha costituito una svolta drammatica per l’Europa, che non potrà più ignorare il rischio che corrono la sua libertà e il suo sistema democratico; così il massacro perpetrato un anno fa da Hamas rappresenta un punto di non ritorno per Israele nel pensare a come garantire la propria sicurezza. In entrambi i conflitti, pur in modi e situazioni diversi, è in gioco la costruzione di nuovi equilibri regionali, e in entrambi i casi sono le armi e la guerra a imporsi come strumento dirimente, perché “il ramoscello di ulivo” che stringeva in una mano Arafat alla fine degli anni Ottanta, o la “casa comune” perseguita da Gorbaciov più o meno in quegli anni hanno ceduto il passo al fucile in un caso e al sogno imperiale nell’altro.
Le responsabilità del drammatico fallimento delle speranze di pace di quegli anni ricadono molto sugli Stati europei che non hanno voluto unirsi per poter influenzare, agendo insieme in un’Unione europea forte e sovrana, il corso degli avvenimenti internazionali nel senso della pace. Oggi gli Stati europei ripetono gli stessi errori, restando divisi e impotenti, incapaci di reagire al ritorno così brutale della guerra come strumento di imposizione di uno Stato sull’altro. Per questo sono colpevoli di non dare nessun contributo utile alla pace, e le vittime innocenti di tutte queste guerre pesano anche sulle coscienze dei nostri governi e delle nostre classi politiche.
Può arrivare – e lo speriamo – una tregua, in Medioriente, ma sappiamo che non basterà a fermare la violenza e l’ingiustizia e che servirebbe tanto un’Europa diversa, un’Europa federale, perché farebbe la differenza guadagnando in fretta l’autorevolezza e la capacità – che oggi non ha – di spostare l’asse della politica internazionale verso la democrazia e la pace. Se gli europei vogliono davvero aiutare la pace, imparino ad unirsi per poterla portare insieme nel mondo.

Pavia-Firenze, 7 ottobre 2024

 

  


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