COP21: UN PASSO AVANTI, MA VERSO DOVE?
Chi più e chi meno, tutti alla fine hanno salutato l’accordo sul clima di Parigi come un passo avanti. Ma verso dove? La COP21 si è conclusa con la condivisione da parte dei paesi partecipanti del riconoscimento dei rischi climatici; della necessità di contenerli e prevenirli riducendo l’innazamento della temperatura del pianeta; del principio inscritto nella Convenzione sul clima del 1992 di “responsabilità comuni, ma differenziate” degli Stati per quanto riguarda i danni ambientali globali, e quindi della necessità di contribuire, da parte dei paesi più sviluppati ad incentivare con un fondo ad hoc la transizione all’uso di energie più pulite nelle aree meno sviluppate. Ma ha ribadito che tutto ciò dovrà continuare ad essere perseguito attraverso contributi volontari determinati a livello nazionale. Ben sapendo che, sulla base di quelli presentati finora, la traiettoria di riscaldamento del pianeta corre verso un aumento di 3 gradi della temperatura globale rispetto a prima della rivoluzione industriale. Un livello ben superiore ai 2, o addirittura a 1,5 gradi, considerato dagli studi scientifici certamente sconvolgente per gli equilibri climatici. Certo, l’impegno dei paesi a ridurre le emissioni che contribuiscono ad innalzare la temperatura del pianeta verrà monitorato ogni cinque anni. Ma tre anni dopo l’entrata in vigore dell’accordo, ogni paese potrà ritirare la propria adesione. In definitiva, nonostante l’accordo, restano irrisolte tutte le contraddizioni che investono il problema del cambiamento climatico. Un cambiamento che il mondo è ben lungi dal riuscire a prevenire ed affrontare efficacemente. Ogni paese tende infatti a riversare sugli altri l’onere dei costi delle politiche necessarie per ridurre drasticamente l’immissione nell’atmosfera dei gas ad effetto serra, e a procrastinare le soluzioni. L’approccio principale finora seguito è consistito nel cercare di accordarsi per far pagare a chi inquina un certo prezzo sulle emissioni prodotte. Ma, in assenza di un’autorità sovranazionale mondiale legittimata a imporre sanzioni a chi non rispetta le regole, ogni Stato ha avuto e continua ad avere buon gioco nel mettere in atto tutte quelle politiche dilatorie che consentono sia di aggirare i vincoli informali sui livelli di emissioni, sia di mettere in atto meccanismi di controllo troppo poco rigidi. Così ogni conferenza internazionale sul clima rischia di ridursi ad un dibattito accademico sul riscaldamento del pianeta, nonostante questo dibattito sia, dal punto di vista dell’analisi tecnico-scientifica, concluso da tempo; mentre tende ad ignorare il fatto che, dal punto di vista politico, si parte ancora quasi da zero. Spetterebbe infatti alla politica indicare come attuare tutte le misure indispensabili per superare l’era dello sfruttamento dei combustibili fossili, trasferire le tecnologie adeguate ai paesi meno sviluppati, tassare le emissioni ad effetto serra.
Il fatto è che non ci sono istituzioni adeguate a livello mondiale per promuovere e governare politiche in grado di far fronte al rischio dei cambiamenti climatici. Non c’è un ordine cooperativo internazionale per porre le basi di una loro creazione, incominciando a pianificare e coordinare una politica globale relativa alla riconversione energetica, alle produzioni e al risanamento ecologico del pianeta. In questo quadro gli strumenti che pure sono stati individuati per guadagnare tempo in vista di una sempre più larga introduzione e diffusione di nuove tecnologie e per allontanare il momento in cui la soglia di pericolo della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera raggiungerà livelli incontrollabili, vengono applicati in modo scoordinato a livello internazionale. Bisognerebbe invece attivare subito una più stretta collaborazione tra i soggetti che maggiormente contribuiscono all’aumento della concentrazione di gas ad effetto serra – sono una ventina i paesi responsabili dell’80% delle emissioni, ma, se gli europei fossero davvero uniti, i soggetti che dovrebbero concordare una politica comune scenderebbero a meno di dieci. Ecco perché gli europei devono impegnarsi a modificare il quadro di potere in Europa: per contribuire più efficacemente a modificarlo nel mondo.
La COP21 di Parigi non ha chiarito come e con quali istituzioni rendere possibile: i) l’avvio di una cooperazione globale tra paesi sviluppati e meno sviluppati; ii) la ripartizione dei costi della decarbonizzazione delle economie; iii) l'introduzione e lo sfruttamentlo della carbon tax; iv) il funzionamento virtuoso del mercato delle emissioni di gas ad effetto serra. Gli europei avevano ed hanno una responsabilità storica e politica nell’indicare con quali istituzioni è necessario e possibile perseguire queste politiche. Ma oggi l’Unione europea non può incidere sugli equilibri mondiali nel campo della promozione della sicurezza in generale e di quella ecologica in particolare. Essa, come tutte le confederazioni, non ha, e non può avere, i poteri necessari per promuovere al suo interno e nei confronti dei principali interlocutori internazionali le politiche fiscali, gli accordi commerciali e industriali, gli interventi militari che sono, nell’epoca della globalizzazione e nell’ambito della stessa cooperazione nel quadro dell’ONU, una prerogativa dell’azione di Stati di dimensioni continentali. E’ del resto sotto gli occhi di tutti la divisione degli europei nel campo della politica energetica e della politica estera, campi cruciali per la definizione di una strategia che permetta affrontare il rischio climatico. La creazione di una vera Federazione europea è il nodo cruciale da sciogliere per rendere possibile sia l’instaurazione di un governo democratico su scala continentale, sia per promuovere un’evoluzione positiva ed in senso cooperativo del governo delle sfide globali. Un nodo che oggi può e deve essere sciolto consolidando in una unione federale l’unione monetaria, realizzando entro questa legislatura europea, l’unione bancaria, quella fiscale, quella economica e quella politica. è su questo terreno specifico che gli europei devono mostrare che è possibile storicamente e politicamente realizzare il salto istituzionale necessario per trasferire a livello sovranazionale la sovranità degli Stati in campo fiscale e nel governo dell’economia, cioè nei due campi strategici per affrontare a livello internazionale le sfide ambientali e climatiche nel mondo. È in questo modo che la battaglia per fare l’Europa si deve e può saldare con quella per vincere la sfida del rischio climatico e, più in generale, per realizzare l'unità del genere umano.
13 dicembre 2015