L’accordo per la creazione di un bilancio ad hoc per l’Eurozona, reso pubblico venerdì scorso dai Ministri delle Finanze di Francia e Germania, e portato nel Consiglio ECOFIN ieri, lunedì, ha il pregio di sbloccare l’immobilismo tedesco e di non lasciare totalmente inascoltate le proposte della Francia. E’ un piccolo passo (“Baby steps on Eurozone reform”, come titola il Financial Times) che ha il pregio di rompere uno stallo che sembrava destinato a paralizzare ogni ipotesi di riforma e rafforzamento dell’Unione monetaria e della zona Euro.
Non era un risultato scontato, vista la distanza tra la posizione di partenza francese e quella tedesca. La Francia proponeva un atto di discontinuità politica rispetto agli attuali assetti europei, creando una vera sovranità economica a livello europeo, e rendendo l’Eurozona una potenza economica globale, trasformandone la governance. Era un disegno che prevedeva un ruolo pioniere da parte di un’avanguardia di Stati, cui sarebbe seguita l’adesione della maggioranza degli altri partner, ma sicuramente non della totalità, quantomeno non dall’inizio. Il piano prevedeva quindi all’interno dell’Unione europea la creazione di livelli diversi di integrazione. Questa visione non era (non è) per nulla condivisa dalla Germania – e sicuramente non ha aiutato neanche il fatto che non abbia ricevuto nessun supporto né dalle istituzioni europee, né dalla gran parte degli altri governi nazionali (con l’eccezione del governo Gentiloni, che però è finito troppo presto).
Le differenze tra Parigi e Berlino sono ulteriormente acuite dalle diverse idee di fondo che i due paesi hanno sul ruolo dello Stato e della politica, sulle responsabilità da assumere in politica estera e nel mondo. La Francia immagina un’Europa in grado di guadagnare un ruolo di leadership a livello mondiale, pur se declinata in termini positivi e cooperativi. La Germania rifugge da questa visione implicita nell’idea di un’Europa politica, sovrana, che si configura come uno Stato – per quanto federale e circoscritto nei suoi poteri.
Inoltre, resta l’asimmetria della posizione dei due paesi nell’UE: ai vantaggi che la Germania, anche per il suo peso preponderante, trae dall’attuale assetto intergovernativo a trazione “nordica” e con (ancora) forte influenza sulla Mitteleuropa e sui paesi dell’Est corrisponde invece una penalizzazione della Francia, che è molto più isolata nel trovare alleanze.
In questo quadro, la presa di posizione di Angela Merkel nel suo discorso al Parlamento europeo sulla prospettiva della difesa europea e questo passaggio sul bilancio dell’Eurozona sono un segnale importante non solo di quanto la Germania ritenga indispensabile il quadro europeo sul piano politico, economico, della sicurezza e della sua volontà di difenderlo; ma ancor di più sono una dimostrazione dell’importanza strategica che l’asse franco-tedesco mantiene ai suoi occhi e del legame profondo che la lega alla Francia come partner privilegiato nell’UE.
Ciò detto, dato che la proposta di Macron, per le ragioni di cui sopra, era di natura eminentemente politica, è evidente come la Germania non abbia voluto condividere questa ambizione. Il bilancio, nell’idea di Macron, era infatti parte di questo progetto: destinato agli investimenti, doveva però essere di alcuni punti di PIL (un bilancio “di tre cifre”) per essere efficace, e doveva essere finanziato con introiti “propri”, che non fossero semplici trasferimenti dagli Stati – come una corporate tax europea. Questo, per ragioni di democrazia, doveva accompagnarsi con una trasformazione istituzionale (di qui l’ipotesi di un Ministro delle Finanze e il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo per rispondere al problema della legittimità democratica). La riforma dell’Eurozona, ed in particolare la creazione di un bilancio separato ad hoc, era dunque lo strumento per avviare la nascita dell’Europa politica.
La Germania invece, pur concedendo di creare uno strumento ad hoc per l’Eurozona, lo fa svuotandolo di ogni potenziale sviluppo politico-istituzionale: questo accordo, infatti, rafforza il carattere intergovernativo dell’UE affidando all’Eurogruppo la gestione del nuovo bilancio, e non prevedendo alcun ruolo specifico per il Parlamento europeo; inserendo il bilancio dell’Eurozona nel bilancio UE – non passibile di evoluzione istituzionale – esclude che il nuovo bilancio UEM possa avere potenzialità di evoluzione nel senso della creazione di un potere fiscale europeo (e della conseguente sovranità economica europea); rimane attento a non creare livelli diversi di integrazione, derubricando come solo temporaneo il distacco tra paesi già membri dell’Eurozona e quelli che non lo sono ancora, e rimangiandosi così quello che era stato scritto nella Dichiarazione di Meseberg, ossia che “per molto tempo ancora alcuni paesi sceglieranno di NON entrare nell’Euro”. Infine, la dotazione del bilancio è talmente esigua, da risultare quasi solo simbolica – anche se questo non esclude che la resilienza della zona euro possa essere accresciuta da questo nuovo strumento. A ciò si aggiunga il fatto che, inserendo il bilancio dell’Eurozona nel Quadro finanziario multiannuale, i cui negoziati (dovendo poi l’accordo essere approvato con voto unanime dagli Stati membri) sono lentissimi, irti di ostacoli e di mercanteggiamenti, questa proposta subirà la stessa trafila lenta e non particolarmente edificante, specie tenendo conto delle resistenze che eserciteranno molti paesi sia nell’Eurozona, sia esterni.
Complessivamente, questo accordo riconferma – e per ora vede prevalere – la visione tedesca (che risale al dopo Kohl) di un’Unione europea fondata sulla governance intergovernativa: un’Europa “modello condominio”, dove ognuno deve tenere in ordine la propria casa, e dove la responsabilità politica è tutta nelle mani degli Stati. In questo sistema, gli incentivi servono innanzitutto per guidare le parti più deboli del sistema nel processo di convergenza – e potenziare in questo modo “il bastone” del controllo. Si tratta di un sistema in cui le limitazioni di sovranità non sono fatte in favore di un potere sovranazionale condiviso, ma di un sistema “a pilota automatico” che affida ad organismi sostanzialmente tecnici la protezione dell’interesse del sistema, svuotando in gran parte il senso della democrazia nazionale – perché solo se fosse coordinata con quella europea in un quadro federale la democrazia nazionale sarebbe giustamente limitata sulla base di una ripartizione stabilita dalla Costituzione e compensata dal recupero del controllo a livello europeo di ciò che non è più deciso a livello nazionale.
Analogamente, questo accordo non si pone l’obiettivo di realizzare l’unione economica: la politica economica resta governata dagli Stati e l’Unione monetaria continua ad essere fondata su un sistema di regole e di controlli e a rimanere priva di un governo economico comune.
In sintesi, al di là delle parole (della stessa Merkel) sulla forza economica dell’Europa come base della sua posizione di potere nel mondo e sulla volontà di dar vita ad un esercito unico perché l’Europa possa prendere in mano il proprio destino, l’Unione europea viene mantenuta priva dei poteri, delle risorse e degli strumenti per governare e diventare davvero una potenza, nell’unico senso vero della parola: quello di potenza politica.
La battaglia ovviamente non si ferma qui: l’Europa intergovernativa non è abbastanza forte per rendere gli europei autonomi nel mondo e per attirare consenso politico sufficiente a sviluppare una società interna coesa e responsabilmente partecipe alla cosa pubblica. Le contraddizioni sono destinate ben presto a esplodere nuovamente. Poiché la Francia di Macron ha riportato nel dibattito europeo l’alternativa federalista dell’Europa politica, sovrana e democratica, e rimane coerente in questa rivendicazione, lo spazio della nostra battaglia politica resta intatto, e deve più che mai concentrarsi nel far crescere e rafforzare l’alternativa federale ai limiti dell’attuale Unione europea.