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Gli Stati europei in tutti questi anni non hanno saputo trovare un accordo per affrontare insieme con un vero piano europeo uno dei problemi più complessi e drammatici del nostro tempo. Chi accusa le istituzioni europee dovrebbe sapere che le soluzioni comuni non avanzano per colpa dei governi degli Stati membri; sono loro a mantenere la gestione del problema a livello nazionale e sulla base di una politica di tipo emergenziale.

Per questo è non solo necessario, ma anche assolutamente urgente, creare un nuovo approccio politico complessivo, attribuendo direttamente alle istituzioni europee la definizione delle norme e le scelte politiche di tipo strategico in questo campo, nel quadro di una profonda riforma dei Trattati che porti alla nascita di una vera unione politica federale.


L’Unione europea è paralizzata da anni e anni sul tema cruciale della politica migratoria nonostante questa materia sia in parte una competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati; di fatto, però – sia perché la competenza sul controllo delle frontiere esterne dell’UE resta agli Stati membri (nonostante Schengen abbia abolito le frontiere interne, unificando lo spazio europeo), sia perché lo stesso vale per la gestione dei flussi, la definizione dello status delle persone che arrivano senza regolare permesso nel Paese, l’organizzazione dell’accoglienza, e così via – sono i governi nazionali che devono accordarsi sulle possibili soluzioni comuni a livello europeo. In questo modo, vista la sensibilità del tema sul piano del consenso interno e data l’incapacità di qualsiasi Stato da solo di pensare un piano di ampio respiro che possa anche bilanciare le esigenze di sicurezza con il necessario senso di giustizia e umanità, gli Stati finiscono con il vanificare le proposte di iniziative comuni promosse dall’UE in quanto tale. Come dimostra l’accordo appena raggiunto in Lussemburgo tra i Ministri degli Interni (a maggioranza, perché Polonia e Ungheria si sono opposte e si preparano a boicottarlo), gli Stati sono ancora fermi alla ricerca di un accordo per suddividersi (o non suddividersi) quote di migranti richiedenti asilo, senza pensare di affrontare realmente il problema nella sua interezza.

Le tragedie come quelle che sono appena accadute al largo della Grecia, dove si è consumata una strage dalle dimensioni abnormi, diventano allora, drammaticamente, l’occasione per riflettere sui limiti – e i costi, non solo materiali, ma anche politici e morali – dell’attuale assetto del sistema istituzionale europeo, che lascia il governo dei problemi politicamente più sensibili agli Stati, e non prevede, neppure di fronte alla necessità di trovare soluzioni comuni, strumenti adeguati nelle mani delle istituzioni dell’Unione europea. Il fatto, soprattutto, di non avere una vera politica estera europea, ma solo un debole coordinamento tra i governi nazionali (che la Commissione europea tenta di promuovere e sostenere, ma su cui non ha potere effettivo) rendono gli Europei così deboli sul piano internazionale, da farli diventare vittime dei ricatti dei regimi senza scrupoli che la circondano. Gli Stati europei subiscono così, impotenti e colpevoli per questa impotenza, un vero e proprio uso strumentale, da parte di questi governi, della vita delle persone disperate in cerca di rifugio o di prospettive per un futuro dignitoso. Ogni tanto, nei momenti più eclatanti, l’informazione porta alla ribalta lo strazio delle famiglie intrappolate  lungo la rotta balcanica, oppure nella terra di nessuno tra la Bielorussia e la Polonia, o ci ricorda i morti nel tentativo di attraversare i confini terrestri o il Mediterraneo; ma la realtà è che si tratta di una situazione perenne, in cui la disperazione viene usata per arricchire la criminalità, e ancor peggio per ricattare o destabilizzare l’Europa: che si vogliano finanziamenti o accordi vantaggiosi, o che si cerchi di creare tensioni e di destabilizzare, la logica è sempre quella di imporre la disumanizzazione delle persone.

Per gli Europei, non saper esercitare alcuna autorevolezza per combattere questo comportamento vergognoso è una sconfitta innanzitutto morale, che porta con sé un deterioramento della coscienza delle nostre società e alimenta la cattiva politica (nazionalista). Se gli Stati si mettessero d’accordo potrebbero sicuramente migliorare la situazione, creando ad esempio corridoi umanitari, una forza congiunta per il pattugliamento dei confini e i salvataggi in mare, o regole e norme chiare e omogenee per l’attribuzione di permessi di soggiorno o lavoro, oltre che per la definizione dello status di rifugiato; ma anche se l’elenco potrebbe continuare, il vero punto è che non basta un accordo tra gli Stati per creare una vera capacità politica di intervento nelle aree limitrofe, o in Africa e nel Medio Oriente, di forza e dimensione adeguate; ed è questo che sarebbe necessario per affrontare il problema.

La tragedia appena accaduta nello Ionio ci ammonisce pertanto sul fatto che l’Unione europea è di fronte al bivio, e deve decidere se farsi unione politica, capace di diventare autonoma e autorevole nella politica internazionale – ipotesi cui sta lavorando il Parlamento europeo in continuità con la Conferenza sul futuro dell’Europa –, o se perpetrare il sistema delle sovranità politiche nazionali, impotenti quando si deve agire, ma abbastanza forti da bloccare la nascita di una capacità di azione comune. In un mondo in cui la democrazia è sfidata con le armi, le guerre asimmetriche, la disinformazione, il ricatto sulle materie prime e sul consenso interno, è chiaro cosa significa rimanere nello status quo. Piangere la tragedia dei morti non basta più, né tantomeno additare “la brutta Europa” e limitarsi ad invocare scelte diverse dei governi nazionali. La vera battaglia è quella di dare sostegno al tentativo del Parlamento europeo di cambiare i Trattati per creare gli strumenti europei per agire.

Pavia- Firenze, 20 giugno 2023

 

  


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