Interventi
Il Movimento Federalista Europeo torna a Genova nel 2011, dopo la partecipazione al Genoa Social Forum nel 2001, per rilanciare il percorso costituente di un’altra Europa ‘libera e unita’ forte della sua storia cominciata nel 1943 grazie ad Altiero Spinelli. Nel 2001, anno del G8 di Genova, l’Europa intraprendeva il processo di riforma delle sue istituzioni che si sarebbe concluso, dopo diverse battute di arresto, nel dicembre 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Un Trattato che non ha sciolto i nodi fondamentali della governabilità dell’Unione, della sua legittimità democratica e del trasferimento delle sovranità nazionali a livello europeo in campi cruciali per la vita degli europei. La crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 e i recenti attacchi speculativi che hanno colpito anche il nostro Paese hanno evidenziato i limiti e le contraddizioni irrisolte del Trattato di Lisbona: il fatto, ad esempio, di avere una moneta unica, l’Euro, senza uno Stato e quindi senza un governo dell’economia, senza risorse adeguate e senza una politica fiscale.
Occorre dunque riaprire il cantiere della realizzazione della federazione e della democrazia europee.
Occorre mobilitare i cittadini europei su un’Iniziativa dei cittadini europei sulla base dell’art. 11 del Trattato di Lisbona entro la primavera del 2012, per mostrare che l’opinione pubblica vuole ancora l’Europa; per rivendicare un’Europa capace di affrontare gli effetti negativi della globalizzazione, aggravati dalla deriva neoliberista che ha dominato il mondo negli ultimi decenni, e di affermare i diritti e la democrazia a livello sovranazionale; per rendere l’Europa capace di rilanciare una nuova fase di sviluppo e di crescita finanziariamente ed ecologicamente sostenibili.
Leggi tutto: Comunicato stampa del Movimento federalista europeo su Genova 2011
L'alternativa di fronte alla quale si trovano gli europei dell'Eurozona è evidente e il commento di Jean Quatremer è a questo proposito emblematico e merita di essere letto, Euro: le fédéralisme ou l'éclatement!
Secondo Beda Romano (IL SOLE 24 ORE, VERTICE UE STRAORDINARIO SULLA GRECIA - pag.17, 16-07-11), la ritrosia tedesca ad accettare di percorrere soluzioni europee più coraggiose, ritrosia ribadita ieri dal ministro Schauble sul Westdeutsche Allgemeine Zeitung in vista del prossimo vertice convocato per salvare la Grecia, nasce prima di tutto dalla consapevolezza del Governo tedesco che “l’Unione europea è ancora una confederazione di Stati sovrani, non una vera e propria federazione”. Da qui l’opposizione tedesca all’idea di creare obbligazioni europee (eurobonds): “Sarebbe un errore in questa situazione” ha ribadito Schauble per conto del governo tedesco.
Leggi tutto: Specchio delle mie brame, chi è il più indebitato del reame?
Un fatto è certo. L’euro e l’Europa non si salveranno se si darà ascolto agli apprendisti stregoni. Questi sono oggi di due tipi: gli “esperti” economisti che pretendono che si creda a tutte le elucubrazioni che propinano parlando ex cathedra; i politici che giocano apertamente e spudoratamente la carta nazionalista.
“L’ULTIMO CAMPO DI BATTAGLIA”
PER SALVARE L’EURO E PER FARE DAVVERO L’EUROPA
Com’era prevedibile, anche l’Italia è entrata nel mirino della speculazione internazionale. Ma a causa del peso e della dimensione che, nonostante tutto, ha ancora la sua economia, a differenza della Grecia, dell’Irlanda, del Portogallo e perfino della Spagna, essa non potrà contare molto sull’aiuto europeo ed internazionale per mettersi al riparo dal giudizio dei mercati internazionali. Questo significa che d’ora innanzi la sua classe politica, le sue istituzioni, la sua opinione pubblica dovranno dar prova di grande senso di responsabilità e di grande capacità nel contenere il più possibile il costo del debito. Non è infatti immaginabile che, qualora la situazione peggiorasse ulteriormente, l’Italia possa venire aiutata ricorrendo ai meccanismi e attingendo alle risorse creati in ambito europeo per far fronte alle crisi di paesi il cui debito, come quello greco, per esempio, è circa un quinto di quello italiano. D’altra parte, se il fronte italiano della crisi non terrà, non solo l’euro, ma l’intero progetto europeo cadrà ed un ciclo storico si chiuderà.
Se l’Italia è dunque diventata, come ha titolato nei giorni scorsi il quotidiano La Repubblica, “l’ultimo campo di battaglia” per salvare l’euro e l’Europa, è però cruciale far luce non solo su come e con quali strumenti finanziari combattere, aspetto questo sul quale esiste già un’ampia gamma di proposte tecniche, ma soprattutto su qual è l’obiettivo strategico da perseguire: l’unità politica dell’Europa. Solo una volta fatta chiarezza su quest’ultimo punto si potrà infatti ragionevolmente pensare di mobilitare forze e di raccogliere consensi su determinate politiche piuttosto che su altre.
Quando si considera lo stato delle cose in Europa oggi, ormai occorre che la politica compia quello che Jean Monnet negli anni Settanta del secolo scorso non aveva esitato a definire “uno specifico atto creatore”. Infatti, “la Commissione economica europea, il Consiglio, l’Assemblea, la Corte”, come scriveva Monnet nelle sue memorie, “sono certamente un modello pre-federale, ma non ancora i veri organi di una Federazione politica europea che nascerà con uno specifico atto creatore che richiederà un nuovo trasferimento di sovranità … A questo punto bisognerà inventare qualcosa di nuovo”. Qualcuno potrebbe osservare, e a ragione, che rispetto a quegli anni l’Europa ha ormai un Parlamento europeo eletto direttamente, una Banca centrale europea ed una moneta. Ma, come la crisi che stiamo vivendo dimostra quotidianamente, questi successi non sono evidentemente bastati e non bastano a unire gli europei. L’unità politica dell’Europa è del resto proprio quanto chiedono, consapevolmente o no, coloro i quali in questi giorni attraverso appelli, commenti, raccomandazioni ai governi e alle istituzioni europee denunciano le contraddizioni di una moneta senza Stato, l’assenza di un’unione fiscale e di una politica economica europee, l’inadeguatezza delle risorse del bilancio europeo e la sua ri-nazionalizzazione. Tutti fatti questi ben riconoscibili anche dagli osservatori esterni all’Europa. Non più tardi dell’8 luglio, l’ambasciatore cinese presso l’Unione
Leggi tutto: Dichiarazione del Movimento federalista europeo sulla crisi del debito in Italia
Le dichiarazioni dell'ambasciatore cinese Song Zhe a Bruxelles (e quanto lascia sottintendere) non hanno bisogno di molti commenti: “We hope that on the face of the difficulties the euro is facing, the core [euro-using] countries can unite to avoid this crisis.”
Cosa succederà se queste speranze andranno deluse dagli europei appare altrettanto evidente: la Cina deciderà il da farsi sulla base della difesa dei propri interessi (su Euobserver, China: EU bailout leaves 'fundamental problems' unresolved).
In un tagliente commento dall’eloquente titolo Europe’s return to Westphalia, apparso sul Financial Times il 23 giungo scorso, Philip Stephens così consclude:
“As the centre of global gravity shifts ever faster towards rising nations, the fragmentation of Europe will only accelerate the pace of its decline.
There is, though, an irony: the new powers with which Europe must now compete have never been much convinced by the Union’s postmodernism. Jealous of their sovereignty, the Chinas, Indias, Brazils and the rest much prefer the Westphalian system. Their model is 1648 rather than the Treaty of Rome.
So history may look back on the past 60 years as an interlude. The leaders at the Brussels summit this week may yet come up with a plan to save the euro. I am not sure they know how to save Europe’."
Il tema meriterebbe di essere approfondito, non fosse altro perché anche autorevoli fautori dell’unificazione europea, come Tommaso Padoa Schioppa, avevano a suo tempo incominciato a dubitare del fatto che il modello istituzionale europeo rappresentasse davvero il superamento dell’ordine westphaliano, basato sulla competizione fra gli Stati: “Tommaso Padoa-Schioppa says the markets attack the eurozone “because it is a post-Westphalian (post-nation-state) experiment, and people don’t believe in that” (in BEYOND MAASTRICHT: A NEW DEAL FOR THE EUROZONE, European Council on Foreign Relations).
In un articolo pubblicato il 5 luglio sul Guardian (Any new Marshall plan will founder in the minds of Europe's hesitant leaders) si ricorda l’importanza che ha avuto il Piano Marshall nella ricostruzione dell’Europa: “Roughly $13bn was paid out in the European Recovery Program (the Marshall plan's official name) and this proved indispensable in laying the foundations for the "miracle" of sustained economic growth in the decade that followed. This $13bn amounted to some 5% of America's national income in 1948. (The equivalent sum for the EU today would be in excess of $800bn)”.
Ma soprattutto, al di là dei numeri, si sottolinea il forte impatto psicologico (e politico, bisogna aggiungere) che ebbe il lancio di questo piano per rilanciare non solo le economie, ma anche le società e il progetto di unificazione europea.
Oggi da un lato i paesi europei avrebbero bisogno di un nuovo Piano Marshall per risollevare le rispettive economie ed affrontare le sfide globali di fronte alle quali si trovano; d’altro lato dovrebbero essi stessi farsi promotori, attraverso l’Unione europea, di un nuovo Piano Marshall nei confronti di aree vicine, come il Nord Africa, che rischiano di implodere. Il problema è che gli europei non possono più contare sull’aiuto incondizionato degli USA, a loro volta alle prese con le conseguenze della crisi finanziaria e con un indebolimento della leadership a livello internazionale. Né possono sperare, come sembra fare il Guardian, nella visione e volontà politica del Presidente della Commissione europea contrapposta a quella di altri leader nazionali europei. Dovrebbero trovare la volontà ed il coraggio di rilanciare il progetto di unificazione politica dell’Europa ed un vero piano di sviluppo e crescita. Come scrive l’autore dell’articolo sul Guardian “The clock is ticking: in September the next package of aid for Greece will have to be announced. It will be a decisive moment and the outcome will be critical for Greece, and for the union too”.
Nicholas Stern, autore qualche anno fa di un importante rapporto sui rischi climatici e sulla necessità e urgenza da parte degli europei di investire maggiormente per ridurre le emissioni di anidride carbonica (http://en.wikipedia.org/wiki/Stern_Review), lancia un accorato appello dalle colonne del Financial Times ammonendo sul fatto che l’Unione europea sta accumulando in questo campo un ritardo preoccupante rispetto ad altre parti del mondo (The Eu risks falling behind the green century, in Financial Times 4 luglio 2011).
Alla luce di quanto gli europei sono stati finora in grado di fare, sembra ormai irrealistico l’obiettivo di ridurre entro il 2050 dell’80-90 per cento rispetto ai livelli del 1990 le emissioni di anidride carbonica. A meno di non ipotizzare ulteriori aggravamenti degli effetti della crisi economica che, già nel 2009, hanno ridotto del 7 per cento le emissioni di anidride carbonica in Europa rispetto all’anno precedente.
Leggi tutto: La non-strategia europea per far fronte al rischio climatico
Secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck, la vecchia dicotomia tra federazione europea e stati nazionali sarebbe superata e ormai irrilevante per il futuro dell'Europa. Sarebbe arrivato il momento di dar vita a un'Europa cosmopolita, aperta e democratica. Purtroppo Beck non si preoccupa di spiegare in che cosa dovrebbe consistere questa Europa cosmopolita, né come la si dovrebbe costruire. L’ambiguità è forse spiegabile con il fatto che Beck parte da una falsa alternative di fronte alla quale, secondo lui, sarebbero gli europei: l’alternativa tra una entità istituzionale indefinita, che chiama Europa, e delle entità ben definite, gli Stati nazione. “Fino a quando l'alternativa sarà tra Europa e Stati nazione”, scrive Beck, “senza la possibilità di una terza via, il solo pronunciare la parola ‘Europa’ scatenerà la paura dei popoli”. Questa "terza via non ancora contemplata", secondo Beck, sarebbe quella di “un'Europa cosmopolita e di una Germania cosmopolita”. L’intenzione di Beck di contrastare la crescente disaffezione dei tedeschi nei confronti dell’Europa è senz’altro lodevole. Ma perché allora non ha usato l’argomento politico, ben più forte e sicuramente più comprensibile per un’opinione pubblica come quella tedesca che vive in uno Stato federale, di fare un’Europa federale? L’arcano si svela quando si considera la preoccupazione principale di Beck in questo articolo: spiegare la distinzione tra nazione e nazionalismo. “I tedeschi che davanti alla strisciante disintegrazione dell'Ue chiedono di ‘tornare agli stati nazione’”, scrive Beck, “sono ingenui e anti-patriottici: ingenui perché ignorano i costi incalcolabili che la fine dell'Ue comporterebbe, e anti-patriottici perché mettono a repentaglio la Germania. Al contrario, comprendere che il futuro della Germania è cosmopolita significa fare il bene sia della Germania sia dell'Europa. Una Germania cosmopolita può imporre anche un nuovo modello di sovranità. La verità è che l'Europa non mette a rischio la forza delle nazioni, ma la accresce.